di NATHALIE PISANO (*) e DANIELE BERTOLINI (**)
Due sono i punti piu‘ controversi sui quali si consuma la battaglia sindacale e politica di ridefinizione degli schemi delle relazioni industriali: la democrazia sindacale in azienda, le regole di ripartizione dell’autonomia collettiva tra il livello nazionale e quello aziendale.
Su entrambi gli aspetti si sono messi a punto nelle ultime due settimane due passaggi rilevanti che vale la pena di analizzare: dapprima è stato siglato lo scorso 28 giugno l‘accordo interconfederale tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria; successivamente e’intervenuta la sentenza con la quale il giudice del lavoro di Torino ha dato il via libera alla newco di Pomigliano riconoscendo al contempo la Fiom tra le rappresentanze sindacali aziendali.
Analizziamo brevemente il contenuto dello storico accordo interconfederale del 28 giugno per poi cercare di comprendere lo spirito della sentenza del Giudice di Torino. Come vedremo tale „salomonica” decisione ha tutta l’aria di voler anticipare la generalizzazione degli effetti del nuovo accordo interconfederale siglato lo scorso 28 giugno da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria.
Sul punto della validita‘ dei contratti aziendali l’accordo interconfederale prevede che se un accordo aziendale viene approvato dalla maggioranza delle rappresentanze sindacali unitarie (Rsu), oppure dalle rappresentanze sindacali aziendali (Rsa), le norme sono efficaci nei confronti di tutto il personale “in forza dell’azienda” e vincolano tutte le organizzazioni sindacali anche quelle di minoranza (c.d. efficiacia erga omnes). Al contempo, pero‘, le minoranze sindacali non perdono (come invece e‘ accaduto nel caso della Fiom a Pomigliano) il diritto alla rappresentanza e i relativi diritti[1].
Un’altra rilevante novità è quella in cui si prevede che, in linea generale, il contratto nazionale stabilisca “i limiti e le procedure” della contrattazione aziendale modificativa rispetto al contratto nazionale stesso. In generale, ove il contratto nazionale non preveda nulla a riguardo, l’accordo autorizza, la stipulazione di contratti aziendali modificativi “con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro””al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa”,
In virtù di tutte queste novità è evidente che se l’ accordo interconfederale fosse stato in vigore un anno fa, non si sarebbero posti i problemi giuridici che sono invece sorti in riferimento ai contratti Fiat di Mirafiori e Pomigliano, e in particolare ai loro rapporti con i contratti nazionali. L’accordo interconfederale, tuttavia, non ha efficacia retroattiva pertanto non può essere direttamente utilizzato per la soluzione di quelle controversie.
E‘ su questo terreno di incertezze giuridiche che si innesta la sentenza del 16 luglio scorso, il cui contenuto dispositivo puo‘ essere scomposto in due punti fondamentali;
1) Da un lato il giudice ha riconosciuto la validità degli accordi aziendali modificativi rispetto ai contratti collettivi nazionali e ritenuto legittimo il meccanismo di creazione della newco da parte della Fiat, la quale non avrebbe per tale via aggirato le norme sul trasferimento d’azienda;
2) Dall’altro ha raccolto le istanze della Fiom ravvisando una condotta antisindacale della Fiat per aver escluso il sindacato dei metalmeccanici dalla rappresentanza sindacale aziendale Di conseguenza, la Fiom, potrà applicare integralmente il titolo terzo dello Statuto dei lavoratori sulla costituzione delle Rappresentanze sindacali aziendali e godere del riconoscimento di una serie di diritti legali (es. indire assemblee, affiggere avvisi in bacheca, avere una saletta sindacale) che, seppur limitati rispetto a quelli che i contratti attribuiscono alle sigle sindacali che hanno firmato gli accordi (es. partecipare al sistema di relazioni industriali operanti all’interno dell’azienda), ripristinano il principio di rappresentanza e il diritto dei lavoratori di decidere a quale sindacato appartenere.
La sentenza pare quindi in sintonia con lo spirito dell’accordo del 28 giugno che, come abbiamo visto, ha introdotto importanti novità sia con riguardo alla rappresentanza sindacale in azienda (l’apertura ai contratti collettivi aziendali come modificativi dei Ccnl nei limiti e con le procedure previste dagli stessi) sia con riferimento alla esigibilità dei contratti stessi. Ci pare possa leggersi, sottotraccia, un primo passo verso la generalizzazione degli effetti del nuovo accordo interconfederale.
Dal nostro punto di vista, quello del radicalismo liberale, e‘ oramai non piu‘ differibile la necessita‘ di un intervento legislativo che consenta di liberare il sistema di relazioni industriali dall’attuale vincolo istituzionale centralistico, rendendo finalmente praticabile la differenziazione degli standard di trattamento e degli schemi di politica rivendicativa.
E‘ chiaro il significato politico che gli attori sociali hanno cercato di imprimere all’accordo interconfederale: il tentativo di chiudere, perpetuandoli nella sostanza anti-riformatrice, dieci anni di relazioni sindacali accese e tutto sommato inconcludenti (la partecipazione della Cgil, che nel 2009 si rifiutò di firmare il precedente accordo, è l’elemento più significativo).
Non v’è dubbio che tra le novita‘ risalti soprattutto il fatto che l’accordo definisca i criteri per il riconoscimento dell’efficacia erga omnes della contrattazione aziendale. Per questo, molti commentatori hanno definito l’intesa come la chiusura della fase denominata c.d. “diritto sindacale transitorio”. Infatti, con la consueta ipocrisia del linguaggio giuridico di regime, viene definito „transitorio‘ il plateale sfondamento sindacatocratico della legalita‘ costituzionale su cui, negli ultimi sessant’anni, si è registrato un permanente accordo concertativo tra il regime dei partiti e il centralismo sindacale-confederale.
La transitorietà è quella derivante dalla mancata attuazione dell’art. 39 Cost. e dagli insanabili dubbi interpretativi da ciò generati in tema di efficacia della contrattazione e rappresentatività sindacale. Tale oggettiva incertezza del diritto del lavoro e‘ durata sei decenni nei quali, con la chiara regia della Corte Costituzionale d’intesa con l’arco „costituzionale” (!) dei partiti, l’azione sindacale e’ sistematicamente straripata dalla funzione economica – costituzionalmente disciplinata – verso la progressiva assunzione di un ruolo politico e di un pieno coinvolgimento nel governo dell’economia.
L’accordo interconfederale mira dunque a stabilizzare il ruolo politico dell’asse concertativo, modernizzando l’intesa al fine di renderla meno distante dalle esigenze pressanti derivanti dal processo di globalizzazione economica.
Non e’ un caso che proprio sull’idea dell’efficiacia erga-omnes si sia registrato il punto maggiormente qualificante di accordo tra le parti sociali. Si e’ confermata e tutelata la dinamica di centralizzazione della contrattazione collettiva burocratizzazione delle rappresentanze sindacali: una volta attribuito alle Confederazioni sindacali il potere di negoziare dal centro la disciplina contrattuale valida con efficacia erga omnes si pongono le premesse per paralizzare la possibile volontà riformatrice del sindacato, determinandone la trasformazione in organo parastatalizzato che assumendo il controllo politico sull’andamento quantitativo e qualitativo del conflitto finisce per comportarsi come veto player sul piano politico ed indebolire la libertà di scelta del lavoratore sul piano dell’autonomia collettiva.
In conclusione, ci pare che il sistema italiano delle relazioni industriali, in assenza di un intervento politico di riforma del legislatore, si sforzi di dare una qualche risposta alle esigenze poste dalle forti spinte concorrenziali della globalizzazione economica; ma tali risposte rimangono deboli in quanto chiuse nell’orizzonte strategico di una pax corporativa che mantenga intatta la logica centralistica e burocratica tanto dell’azione sindacale quanto della rappresentanza organizzata sul fronte imprenditoriale.
Al contrario, noi pensiamo che sia nell’interesse dei lavoratori e delle imprese quello di superare la logica centralistica dell’azione sindacale che ispira il principio della efficacia collettiva erga omnes. Occorre restituire, tramite decisi interventi politici riformatori, vigore ed effettività al principio costituzionale del pluralismo sindacale, inteso come effettiva possibilità per i lavoratori di optare per una politica rivendicativa qualitativamente diversa da quella dominante. In quest’ottica si potrebbe immaginare una politica che punti a livelli retributivi significativamente maggiori in cambio di una riduzione del contenuto assicurativo del rapporto di lavoro.
Il legislatore potrebbe fissare un salario orario stabilito in sede legislativa come standard minimo assoluto inderogabile, applicabile a qualsiasi forma di lavoro, che offrirebbe una protezione anche ai settori non coperti dalla contrattazione collettiva, ai lavoratori temporanei od occasionali, ai collaboratori autonomi.
In tale nuovo sistema si ritornerebbe all’equilibrio costituzionale nei rapporti tra legge e autonomia collettiva: al sindacato il compito di contrattare a nome dei suoi rappresentati (migliori condizioni lavorative e retributive con riferimento alla singola realta’ produttiva di riferimento) e rispondendone a questi, al Parlamento e al Governo il compito di emanare norme a tutela dei lavoratori con efficacia generale, rispondendone alla generalità degli elettori.
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[1] Inoltre, nel caso in cui il contratto sia stipulato dalle Rsa titolari della maggioranza delle deleghe all’interno dell’azienda deve essere sottoposto a referendum se richiesto da uno dei sindacati firmatari dell’accordo interconfederale, oppure dal 30 per cento dei lavoratori interessati: in tal caso la maggioranza dei votanti può, con il proprio voto contrario, privare il contratto dei suoi effetti.
(*) Segretaria Associazione Radicale Adelaide Aglietta di Torino
(**) Direzione nazionale Radicali Italiani